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Leggi qui l'articolo de La Stampa: la_stampa_30_09_2024.pdf

Aumenta il numero di poliziotti che lasciano gli istituti di detenzione in condizioni inumane. Non è disimpegno, ma scarsa fiducia nel governo.

“Se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”, canta Fabrizio De André. Ed è la prigione peggiore degli ultimi anni quella che, oggi, stanno “spartendo” prigionieri e piantoni, per dirla con Faber. Segregazione, repressione, violenza, perdita della speranza e della dignità. Regina Coeli che brucia, il carcere con il primato dei suicidi, è l’immagine emblematica della sorte comune e tragica di carcerieri e carcerati, intrappolati in una polveriera pronta a esplodere per rabbia, paura, umiliazione, abbandono.

Un carcere illegale, trasformato dal governo Meloni in un’arena di scontro tra “nemici”, i detenuti e i poliziotti. E se i primi, per uscire dall’invisibilità, si ammazzano, danno fuoco ai materassi, si tagliano, aggrediscono chiunque, disobbediscono agli ordini ed evadono, ecco che anche gli altri, i poliziotti, vittime del medesimo sistema, si suicidano, aggrediscono, picchiano, reprimono ciecamente. Ed “evadono”. Proprio così, fuggono da questo carcere senza speranza e dignità, da una politica che li mette gli uni contro gli altri e che, invece di inculcare la cultura costituzionale del rispetto, fomenta quella del nemico e della forza (che purtroppo spesso trasmoda in tortura) come arma per garantire ordine e sicurezza. Quanto si può sopravvivere in questa polveriera?

A differenza dei detenuti - che non hanno scampo visto che il governo esibisce i muscoli per tenerli dentro anche in condizioni inumane e degradanti, accentuate dal sovraffollamento, e addirittura li punisce se protestano pacificamente - i poliziotti hanno una via di fuga (non a costo zero), perché possono chiedere di andarsene prima del previsto. E così fanno, sempre di più negli ultimi anni.

Non è disimpegno ma demotivazione, frustrazione, perdita di fiducia in chi dovrebbe dotarli degli strumenti previsti dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali, dalle leggi e dai regolamenti vigenti, e cioè organici adeguati, costante formazione professionale, ambiente di lavoro vivibile e rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali di tutti, collaborazione con altre figure professionali, come interpreti e mediatori culturali, medici e psichiatri, affinché il loro lavoro non sia solo vigilanza e repressione. Niente di tutto questo. La dotazione dei circa 25mila poliziotti che lavorano dentro-dentro il carcere è fatta di tute mimetiche e antisommossa, di manganelli e reati contro i detenuti (come la “rivolta passiva”, previsto dal Ddl sicurezza, punito con la reclusione da 1 a 5 anni). Tutti simboli della repressione. A qualcuno piace, ad altri no e se ne vanno.

Negli ultimi tre anni, più del doppio dei poliziotti andati in pensione ha abbandonato il campo di battaglia anticipatamente, persino entro il primo anno dall’ingresso in servizio. Si sussurra, coperti dall’anonimato, che addirittura il 25% dei neo assunti “scappa da quest’inferno e da questa guerra insensata” dopo 12 mesi di servizio. Difficile trovare un riscontro puntuale nei dati del Dap, che però confermano la progressiva fuga dal carcere. Nel 2021, sono andati via anticipatamente 966 poliziotti (rispetto ai 463 pensionati); 971 nel 2022; addirittura 1025 (di cui 917 agenti) nel 2023 e 763 fino a settembre di quest’anno.

Il sistema carcere ha perso la bussola e non può ritrovarla con un governo privo di una vera mentalità costituzionale e con la continua crescita della popolazione carceraria (il tasso di sovraffollamento è del 130% con punte del 220%), perché il sovraffollamento (persino negli istituti minorili) impedisce qualunque seria offerta rieducativa e, al contrario, esaspera i conflitti.

A fine settembre i detenuti erano 62mila per 46mila posti regolamentari. I condannati a pene brevi (fino a 5 anni) sono circa la metà di tutti i detenuti definitivi, ma aumenteranno con la politica del governo Meloni, che, lungi dall’affrontare i problemi sociali del Paese, quei problemi li scarica sul carcere, non a caso zeppo di malati mentali, di tossicodipendenti, di poveri e senzatetto, di migranti irregolari e - se sarà approvato l’ultimo capolavoro delle destre “garantiste” - anche di chi protesta pacificamente, a cominciare dai giovani, visto che il Ddl sicurezza criminalizza ufficialmente il dissenso, considerato un “pericolo per la sicurezza” e sbatte tutti in galera. In compenso, cancella i reati dei colletti bianchi.

L’estate è stata scandita dai suicidi dei detenuti (72), dei poliziotti (7) e dall’implacabile sovraffollamento. Ad agosto, il governo ha illuso (ingannato?) l’opinione pubblica, e soprattutto i detenuti e i poliziotti, con il decreto legge “Carcere sicuro” che sembrava destinato a dare una boccata d’ossigeno alle patrie galere e che invece serviva solo a introdurre in corsa il reato di “peculato per distrazione”, senza il quale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non avrebbe potuto promulgare (per violazione degli obblighi internazionali) la legge di abrogazione dell’abuso d’ufficio. Nessuna misura per affrontare l’emergenza carcere. Svelato l’inganno, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è affrettato a preannunciare (in modo anche un po’ maldestro) altre misure urgenti sul carcere, giurando che le avrebbe presentate a settembre previo confronto con Mattarella. Bugie. Ad oggi, non risulta nulla. Anzi.

Nella sua prima uscita pubblica via social, dopo le vacanze estive, la premier ha annunciato che la priorità del suo governo sarebbe stata “la sicurezza” identificata con l’immigrazione irregolare, giusto per consolidare l’idea del “nemico” che viene da fuori a insediare i nostri confini e le nostre libertà. E a razzo la Camera ha approvato il “Pacchetto sicurezza”, che è un oltraggio allo stato di diritto. Come in passato, è probabile che anche queste norme da stato di polizia (se diventeranno legge) verranno cancellate dalla Corte costituzionale, sempre che nel frattempo Meloni non se ne sia appropriata, mandando a palazzo della Consulta i suoi “soldatini” in sostituzione dei 4 giudici mancanti (uno da novembre 2023 e altri tre da dicembre 2024). Ma poiché sono misure che incidono sulla libertà personale e di espressione, occorrerà alzare subito un argine robusto, la Costituzione, e fermare la deriva illiberale in cui stiamo precipitando.

Mettere al centro la Costituzione è l’unica strada per ridare ossigeno anche al carcere dei diritti. “Tutti evadono da questo carcere senza speranza”, dice Gennarino de Fazio, segretario generale della Uilpa, uno dei sindacati della polizia penitenziaria. “Agenti, comandanti, direttori, capi dipartimento, alti dirigenti del Dap: tutti fuggono via - aggiunge -. L’ultimo caso è quello di Giancarlo Cirielli, capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, che si è trasferito all’Ispettorato del ministero. È normale che a scappare siano i detenuti, lo è meno se a farlo sono i poliziotti, ma qualunque cosa è meglio dell’inferno delle prigioni italiane, dove ogni giorno va in scena il paradosso per cui lo Stato punisce chi viola la legge violando a sua volta la legge, calpestando i diritti delle persone e alimentando conflitti violenti”. Davvero il governo Meloni può chiamarsi fuori da questa responsabilità? Riascoltate De André, perché nella sua ballata c’è, alla fine, anche la risposta a questa domanda.

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Mercoledì, 11 Settembre 2024 08:55

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