Triste giornata quella di ieri per la Polizia Penitenziaria perché altri due Poliziotti penitenziari hanno purtroppo deciso di suicidarsi. In mattinata il primo, in servizio a Cosenza, dopo aver ucciso la moglie si è tolto la vita; nel pomeriggio stesso destino per il secondo, in servizio presso la CR di Milano Opera.
Lo comunica - Angelo Urso Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria- che, dopo aver metabolizzato le tragiche notizie commenta “sono tanti troppi gli episodi del genere che riguardano la Polizia Penitenziaria e nessuno sembra preoccuparsene. Al di là delle ragioni scatenanti e delle motivazioni in corso di accertamento, chi detiene la responsabilità del Corpo deve sentire il dovere di verificare le condizioni di un lavoro che non ha eguali, come quello svolto all’interno di un carcere”.
Ministro della Giustizia e Capo del Dipartimento sembrano ignorare le linee guida per la valutazione del rischio che, è bene sottolinearlo, non deve essere una misura individuale, ma deve rispecchiare una situazione dei diversi comportamenti del luogo di lavoro.
“Le predette linee guida suggeriscono - prosegue il Urso – l’utilizzo di questionari da somministrare ad un campione significativo, con l’obiettivo di individuare le aree soggette a rischio sulle quali concentrarsi, ma di tutto ciò nessuno si preoccupa all’interno dei penitenziari. Paradossalmente un indagine del genere la stiamo realizzando autonomamente proprio noi della UIL, consci del fatto che questa sia una priorità per la Polizia Penitenziaria”.
Una seconda conseguenza da valutare è quella del Burn-Out che, come noto, colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto. Questo fenomeno è la conseguenza di una serie di fattori stressanti e di reazioni soggettive che colpiscono più di chiunque altro chi lavora in un carcere a contatto con persone in situazioni di costrizione, portandolo a farsi carico in prima persona di tutte le inefficienze di un sistema abbandonato a se stesso, generatore inesauribile di rischi, fino a non riuscire più a distinguere tra se stesso e il detenuto.
“Non voglio assolutamente dire che queste situazioni siano da ricondurre alla responsabilità del DAP – continua il sindacalista - ma certo l’ambiente di lavoro non è realizzato attraverso l’utilizzo di opportuni indicatori relativi al contesto lavorativo e al contenuto del lavoro. Assenza di cultura e benessere organizzativo, difficoltà nella gestione dei rapporti interpersonali e di relazione, orari di lavoro e turni particolarmente pesanti, carichi di lavoro eccessivi, aggressioni e minacce da parte dei detenuti, carenze strutturali, esasperata burocrazia e gerarchia sono tutti fattori di malessere che alla lunga incidono, anche inconsapevolmente, su chiunque”.
Tutti sanno che andare a lavorare sereni aumenta la qualità del servizio offerto e tutti sanno che chi detiene un arma a maggior ragione deve essere sempre lucido, tranquillo e predisposto a qualunque tipo di situazione.
“E’ fin troppo evidente che se salta uno solo di questi fattori di equilibrio le condizioni professionali, ma purtroppo anche private, determinano situazioni di rischio, a volte impercettibili, con effetti nocivi”.
Avere un datore di lavoro attento e sensibile alle esigenze dei propri dipendenti aiuta appunto a creare le predette condizioni di benessere, in realtà però Il personale percepisce il DAP distante, assente, distaccato, insensibile e qualcuno dovrebbe forse domandarsi perché accade questo.
Urso lancia un auspicio: “ribadisco che non voglio attribuire responsabilità in astratto, men che meno strumentalizzare simili tragedie, tuttavia la preoccupazione è d’obbligo e imporrebbe a me per primo ma anche a tutti coloro che hanno responsabilità politiche e amministrative di riflettere seriamente su cosa è possibile fare, perché fosse anche uno solo “intercettato” e aiutato sarebbe comunque un grande risultato” e conclude con un messaggio alle famiglie: “siamo vicini alle famiglie dei colleghi e con dolore esprimo loro, a nome mio personale e di tutta la UIL cordoglio e solidarietà”