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La Repubblica - Carcere, la grande fuga: perché in Italia le evasioni sono così facili - Dalle classiche lenzuola fino ai manici di scopa. Spesso approfittando di rivolte e disordini. Soltanto gli istituti macedoni e pochi altri sono più colabrodo dei nostri. Le ragioni? «Troppi i detenuti e troppo pochi gli agenti di polizia penitenziaria»
Alle otto della sera, dopo la cena in mensa, il detenuto Antonio Liuzzi chiede una sigaretta all’agente di custodia di turno e va in cortile a fumare. Liuzzi è di Grottaglie, provincia di Taranto, ha 43 anni gran parte dei quali vissuti dietro le sbarre, adesso sta scontando una pena per furto e rapina, suo “mestiere” da sempre. Antonio si guarda intorno, non scorge anima viva. Ha già provato a fuggire almeno tre volte e questo potrebbe essere il momento giusto. Scavalca il muro di cinta e non fa più ritorno nella struttura.
Ad Avellino scatta l’allarme: gli agenti lo cercano per tutta la notte, lui si nasconde nel bosco che circonda il carcere. Alle prime luci dell’alba si dirige verso la stazione dei pullman: vuole prenderne uno diretto verso la Puglia, magari per fare una “sorpresa” ad amici e parenti. Ma non sa che quella domenica, il 9 settembre scorso, il personale dei trasporti ha proclamato uno sciopero generale in tutta Italia. Aspetta un paio d’ore, impreca per l’assenza di mezzi, non può immaginare che proprio quel giorno viaggiare sarebbe stato impossibile.
La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo recita il proverbio. E così, quando arriva una volante della polizia, Antonio accenna una nuova fuga ma per lui non c’è più nulla da fare: tornerà in cella, in attesa di un nuovo processo che allungherà inevitabilmente la sua detenzione. L’articolo 385 del Codice penale è piuttosto chiaro: “Chiunque evade è punito con la reclusione da uno a tre anni”.
Un’estate bollente
È solo uno degli ultimi casi di un’estate caldissima anche sul fronte dell’emergenza carceraria. Rivolte, aggressioni, suicidi. Ed evasioni “facili” dai penitenziari in sofferenza, con agenti di custodia sotto organico costretti a turni massacranti di lavoro, sistemi di sicurezza colabrodo e condizioni di vita oltre i limiti della decenza.
Tanto per dire, quella stessa domenica altri tre giovanissimi rinchiusi nel carcere minorile Beccaria di Milano erano riusciti a far perdere le proprie tracce: due fratelli di 16 e 17 anni, nati a Como da genitori maghrebini, e un altro diciassettenne immediatamente ripreso ma capace di far perdere nuovamente le proprie tracce soltanto poche ore dopo, mentre erano in corso le ricerche degli altri due.
«Spesso mettere in carcere i minori non è la soluzione migliore per risolvere i loro problemi», spiega don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria. «Sono ragazzi molto irrequieti e sui grandi numeri diventa difficile contenere aggressività e voglia di evadere».
L’istituto milanese, del resto, non è nuovo a casi del genere. Qualche giorno prima di Natale, nel 2022, ci fu una maxi fuga di detenuti – scapparono in sette, che poi vennero ripresi nel giro di qualche giorno – e un’inchiesta in corso ha quasi azzerato gli agenti penitenziari in servizio accusati di violenze e soprusi nei confronti dei giovani “ospiti”. Un altro segnale del disagio sempre più crescente che si vive dietro le sbarre.
Venti volte più che in Europa
Gennarino De Fazio, segretario generale di Uilpa Polizia Penitenziaria, tiene ormai un diario quasi quotidiano di quello che succede nelle carceri italiane. Non ci sono dati ufficiali, ma basta scorrere le cronache dei giornali per capire che evadere non è poi così impossibile negli ultimi tempi. Certo, non siamo ai livelli della Macedonia dove, secondo l’Osservatorio europeo Space, il tasso di fuga è di ben 690,6 detenuti ogni 10 mila, ma con 22,8 siamo ben messi nelle classifiche continentali: la media Ue è 2,2.
«Mentre la politica è impegnata a occuparsi del caso Sangiuliano invece che di San Vittore, nei penitenziari avviene di tutto», spiega il sindacalista. «E a pagarne le spese, oltre ai reclusi, sono 36 mila donne e uomini della polizia penitenziaria, stremati nelle forze e mortificati nell’orgoglio, che scontano le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato. Quello stesso Stato che, per mano dei governi, li ha abbandonati».
De Fazio snocciola i numeri dello sfascio: «L’organico del personale dovrebbe essere di 43 mila unità. Allo stato, ne mancano almeno settemila. Ma, attenzione, quei 43 mila sono previsti per una popolazione carceraria di 51 mila detenuti. Peccato che oggi dietro le sbarre ci siano almeno 62 mila persone, anche per effetto del cosiddetto Decreto Caivano che ha abbassato da nove a sei anni il limite per la custodia cautelare facendo lievitare il numero dei reclusi del venti o trenta per cento. Con tutto ciò che ne consegue».
Uno a cento
E allora non può stupire che la sera nella quale Antonio Liuzzi è riuscito a scavalcare indisturbato il muro di cinta, nel carcere di Avellino ci fossero in servizio appena sette agenti per più di seicento detenuti: «La normativa ne prevede uno per ogni 2,5. In questo caso il rapporto era quasi di uno a cento. Ma cos’altro deve accadere per prendere provvedimenti seri?» conclude De Fazio.
Anche perché, nel tempo, i compiti degli agenti penitenziari si sono moltiplicati: controllare i detenuti è solo uno dei tanti perché vengono impiegati anche nei tribunali di sorveglianza, nei nuclei investigativi speciali e persino per incombenze amministrative, come curare pratiche contabili che dovrebbero spettare a impiegati civili: «Che, però, non ci sono» spiegano i sindacati «e dunque tocca occuparsi anche di questo durante le ore di straordinario».
Con questi chiari di luna, dunque, fuggire dal carcere non è più un’impresa da Alcatraz. In uno studio di qualche tempo fa, il direttore generale della Formazione del personale del Dap, Pietro Buffa, aveva elencato una serie di strumenti generalmente usati per evadere: dalle classiche lenzuola ai manici da scopa per realizzare funi e scalette fino ai coprimaterassi in tela, i teli da bagno o le corde sottratte dal campo sportivo interno. «I ganci» spiega Buffa «vengono realizzati con materiali di fortuna, come parti dei telai o dei fermi delle finestre della cella, le sponde laterali anticaduta dei letti, il mancorrente di un carrello portavivande o parti degli sgabelli che arredano le celle. Alcuni detenuti hanno utilizzato anche delle pertiche, rubando pali di legno in uso nella serra interna o tubi in ferro lasciati incustoditi all’interno della cinta».
Come l’albanese Roland Dedja, pericolosissimo criminale accusato di sequestro di persona e traffico di stupefacenti, che un anno fa a Teramo si è calato con una corda dopo aver tranciato le grate. Da allora è latitante: coinvolto – ma poi assolto – anche in un caso di omicidio, è riuscito probabilmente a tornare nel suo Paese. I complici che lo avrebbero aiutato a fuggire sono stati arrestati nel marzo scorso, di lui invece si sono perse le tracce.
Il re delle evasioni
È vero che gran parte delle evasioni si risolve in pochi giorni – spesso sono gli stessi familiari a convincere i fuggiaschi a tornare in carcere per evitare guai più grossi – ma di casi come quello dell’albanese ce ne sono diversi. Diceva un “maestro” del genere come Renato Vallanzasca che «per evadere ci vogliono almeno cinque minuti. Ma serve soprattutto organizzazione, amici fuori che ti sostengono, complici, armi, strutture, soldi, corruzione, un ambaradan che non metti in piedi in cinque minuti. E dove non basta il fegato, ci vuole anche il culo». Vero, ma viste le condizioni delle carceri attuali, probabilmente oggi basta anche meno.
Sul Venerdì del 4 ottobre 2024