Si parla molto del rapporto tra lavoro e salute mentale, ma nella maggior parte dei casi sono le professioni creative o quelle del terziario culturale a essere raccontate. Ci sono però tanti altri lavoratori il cui benessere psicologico è messo a dura prova ogni giorno, come gli assistenti di volo, gli edili e i poliziotti penitenziari. - Fonte: https://lucysullacultura.com
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Burnout è una parola con la quale in Italia abbiamo imparato a familiarizzare nel periodo post-pandemico e che, nel linguaggio comune, finisce per indicare in modo accattivante una forma di esaurimento. Il termine – coniato nel 1974 da Herbert Freudenberger, psicologo descritto nel suo necrologio come un uomo “molto complicato” che lavorava abitualmente 15 ore al giorno – viene spesso usato anche per indicare qualsiasi malessere psichico originato a lavoro, anche quando non è così.
In un articolo del 2021 sul «New Yorker», la storica e giornalista Jill Lepore, nel raccontare la parabola della parola negli ultimi decenni, la definisce una “metafora travestita da diagnosi”. Questo perché siamo in presenza di un fenomeno occupazionale e non di un disturbo medico. “Al di là dell’errata concettualizzazione, il rischio reale che vedo è che se io non do a un problema la sua giusta etichetta e collocazione non lo posso risolvere correttamente”, commenta Ilaria Setti, psicologa del lavoro che insegna all’Università di Pavia. Setti ci aiuta a ricollocare il burnout nei giusti termini: “Le sue cause sono da attribuire alla gestione e all’organizzazione del lavoro, e questo non può riguardare un’unica persona; le problematiche che riguardano un’unica persona e sono passibili di diagnosi clinica sono altre, di sicuro non il burnout”. Però spesso accade che la persona avverta uno o più dei sintomi tipici del disturbo – esaurimento delle energie, distanza mentale o cinismo nei confronti del proprio lavoro, ridotta efficacia professionale – e si convinca di essere in burnout anche quando magari la causa del malessere non è organizzativa. Laddove però il burnout c’è davvero, la risposta non può ricadere solo sull’individuo. Oltre alla psicoterapia, “devono esserci soluzioni di tipo collettivo, come forme di psicoeducazione, informazione e riorganizzando le attività lavorative”, avverte Setti.
I disagi causati dal contesto professionale e dalla natura del proprio operato sono comuni a tutte le forze dell’ordine, ognuna con le proprie caratteristiche. Una in particolare, però, sembra essere la più esposta quotidianamente al malessere psicologico altrui.
Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato di categoria Uilpa Polizia Penitenziaria, descrive le carceri italiane come “un luogo dove i criminali sono forse la minoranza: ci sono soprattutto quelli che, per varie ragioni, sono considerati i deietti della società”. Nei loro corridoi, gli uomini e le donne della Penitenziaria sono, a detta del sindacalista, “gli unici costantemente presenti ad accudire” queste persone scaricate dal resto della società. Gli agenti entrano a contatto ogni giorno con le sofferenze mentali dei detenuti, che sono notevoli. Basti ricordare un solo dato: nel 2022 ,abbiamo assistito al più alto numero di sempre di suicidi in cella, 85, secondo il rapporto dell’associazione Antigone.
Questo non può non avere delle ricadute anche sulla mente degli agenti della Penitenziaria, i quali “vanno incontro a disturbi di carattere psicologico o psichiatrico che molto spesso evitano di denunciare perché ne deriverebbero conseguenze negative per la carriera sia per la vita ordinaria”, afferma De Fazio. Una sua stima è che tra il 25% e il 50% dei pensionati della Polizia Penitenziaria si ritirano portandosi dietro delle patologie psichiche. Il sindacalista aggiunge che da qualche tempo è stato messo loro a disposizione un servizio di sostegno psicologico, ma c’è ancora molta ritrosia a rivolgervisi. E se in altri ambienti la speranza nella maggiore sensibilità al disagio psichico delle giovani generazioni di lavoratori sembra ben riposta, negli istituti penitenziari al momento il cambiamento appare lontanissimo.