Ancora eventi critici, ieri un aggressione nei confronti di un agente a Foggia e il mancato rientro di due rumeni dal lavoro all’esterno a Milano-Bollate (praticamente due nuovi evasi) e ancora un sistema, quello carcerario, che registra una preoccupante degenerazione che non sembra destare l’attenzione di nessuno.
Anzi oserei dire che, nonostante ciò, l’Amministrazione penitenziaria profonde tutte le proprie energie per far credere che tutto va bene, che tutto funzioni e che, anzi, siamo pronti anche a cambiamenti radicali nel senso di recepire indirizzi di maggiore attenzione al linguaggio utilizzato.
Il riferimento, evidentemente, va alla lettera circolare n. 0112426 del 31/3/2017, il cui oggetto è il seguente “ridenominazioni corrette di talune figure professionali ed altro in ambito penitenziario”.
Una disposizione di servizio tanto paradossale quanto decontestualizzata rispetto ad un sistema caratterizzato da inefficienze e carenze diffuse, che rende ancor di più insopportabile il lavoro dei poliziotti penitenziari all’interno delle carceri.
Pur comprendendo le ragioni in essa sottese vale la pena ricordare che i principi base della comunicazione, quali anche i linguaggi settoriali o specifici, vengono spontaneamente prodotti da gruppi di persone che condividono esperienze.
Gli ambienti di lavoro, quindi anche il carcere, generano un lessico identificativo di mansioni ed attività che si sono costruiti nel tempo, ragione per cui per giungere ad una efficace modifica dei termini comunemente utilizzati servirebbe un cambiamento partecipato, perché la condivisione del cambiamento produce maggiori effetti della sostituzione imposta.
Da questo punto di vista sarebbe forse stato più utile e opportuno avviare un percorso fatto di informazione e programmi di formazione capillare, di partecipazione nel processo di cambiamento più che imporre dall’alto una trasformazione incompresa, soprattutto se l’obiettivo è quello di un cambiamento sostanziale e non solo formale dei termini.
La connotazione negativa a cui fa riferimento la circolare, infatti, può permanere indipendentemente dalla singola parola scelta per una determinata mansione o luogo. Il rischio che si corre sottovalutando questo aspetto è quello di generare due linguaggi paralleli, l'uno ufficiale l'altro ufficioso, in un ambito come il carcere dove già esiste una sub-cultura che è quella del linguaggio dei detenuti o forse dovrei dire dei “diversamente liberi”.
Un altro rischio che si corre è quello di "sprecare" l'opportunità di centrare l'obbiettivo ben più ambizioso di uniformarsi alle “regole penitenziarie europee”, evitando una segregazione aggiuntiva per ruoli e compiti, riscontrabile in maniera chiara nei casi elencati, ma estendibile a tutte le persone che sono a vario titolo operanti all'interno dei penitenziari.
Uniformarsi significa precisamente standardizzare il sistema penitenziario e non una parte di esso ed ecco quindi che, seppur risulta antipatico contrapporre gli uni agli altri, viene spontaneo domandarsi perché Lei che non solo è il Capo del DAP ma anche della Polizia Penitenziaria non ravvisi l’esigenza e l’opportunità di fare altrettanto e con uguale solerzia rispetto a tutto ciò che genera frustrazione e disaffezione tra i colleghi.
Per quale ragione non si prodighi a far sì che: le mense obbligatorie di servizio garantiscano un servizio decente, perfino prevedendo che gli appalti si realizzino sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa, piuttosto che al ribasso; scrivendo agli organi e alle agenzie di stampa quando utilizzano terminologie scorrette nei confronti del personale; o preoccuparsi di dotare il personale di uniformi in quantità e qualità corretta; o ancora di verificare che le disposizioni di servizio all’interno delle carceri siano rispondenti alle mansioni richieste; che i mezzi di trasporto siano dignitosi e che gli istituti siano dotati di impianti di automazione, di sorveglianza remota, di anti scavalcamento e di allarme funzionanti. Con la Sua circolare, invece, Il linguaggio presenta aspetti di reciprocità che sottolineano visioni contrapposte che costituiscono il freno ad un cambiamento che, ribadisco, può solo essere totale.
Modificare i termini identificativi rivolgendosi solo ai detenuti è un grosso errore perché loro sono solo una parte del circolo comunicativo all’interno del sistema, mentre il processo di evoluzione culturale, ma anche strutturale, necessita di sostanza, che purtroppo non si registra, è lento ma permetterebbe di operare cambiamenti che abbiano radici più stabili, volute e condivise.
Del resto, basti pensare che persino nello schema di decreto legislativo di prossima promulgazione e relativo al riordino delle carriere delle FF.PP. nelle funzioni degli assistenti capo coordinatori del Corpo di polizia penitenziaria (e solo per loro) si è scelto di ricorrere a una terminologia impropria, desueta, di stampo prettamente militare e non contemplata in alcuna disciplina vigente indicando con “tabelle di consegne” ciò che nel Regolamento di Servizio viene correttamente definito con “ordini di servizio”.
Distinti saluti f.to: Il Segretario Generale Angelo Urso
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