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I detenuti raccontano come è stato lasciare il carcere

di Alessandro Trocino, video Christian Franz Tragni / CorriereTv

Quando è uscito dal carcere di San Vittore per la prima volta dopo 17 anni, Pino Cantatore - che ora ha un’azienda con 200 dipendenti - è andato a casa dei genitori e ha spalancato tutti i cassetti: «In cella non ce ne sono di cassetti, a casa quando li ho visti li ho aperti tutti, volevo vedere cosa c’era dentro e mi piaceva anche solo il gesto di tirarli fuori. Quel giorno, tornando in cella, mi hanno dato il permesso per passare dal supermercato a comprare due o tre cose ed ero un po’ preoccupato, perché sono entrato in carcere che c’era la lira ma nel frattempo era arrivato l’euro. Non maneggiavo monetine da 17 anni, figuriamoci i centesimi. Ero stupito dalla quantità di merce che c’era, ho riempito il carrello, ma avevo l’angoscia di non rispettare i tempi di rientro e allora ho lasciato tutta la spesa, e il carrello, e sono corso via».

​Quando è uscito dal carcere di Bollate, dopo quattro anni e mezzo, Massimo Aliprandi aveva già lavorato a lungo con una cooperativa, la Bee4, che gli aveva pagato uno stipendio e quando è uscito gli ha trovato anche un alloggio dove stare per un prezzo simbolico, e dunque, ci dice, la sua uscita non è stata romantica, quelle robe da film che vedi il cielo per la prima volta o vedi le persone e ti stupisci, perché Bollate è un istituto a custodia aperta e dunque il passaggio da dentro a fuori non è stato poi così traumatico e ora è quasi un anno che è fuori, Massimo, e intende rimanerci per sempre.

​Quando stava per uscire dal carcere Lorusso e Cutugno di Torino, dopo qualche giorno in cella per resistenza a pubblico ufficiale, Hamid ha saputo che, una volta uscito, sarebbe stato ripreso e rimandato in Albania, nel Cpr di Gajder, non per scontare una pena, perché quella sua lieve l’aveva già scontata, ma perché era arrivato dal Marocco clandestinamente e quindi lo avrebbero legato mani e piedi con fascette di plastica e lo avrebbero rispedito in Albania in «detenzione amministrativa», in attesa di essere rimpatriato. E così Hamid ha pensato che non aveva più voglia di uscire, lo ha detto al suo avvocato, poi si è tolto i lacci delle scarpe e si è impiccato. 

​Quando è uscito dal carcere di Rebibbia, lo scorso anno, Luca da Tor Bella Monaca aveva un lavoro da cameriere che gli ha trovato l’associazione Seconda Chance e dunque è andato in questo ristorante dei Fori imperiali, prima con un articolo 21, poi con un affidamento in prova e infine con un contratto a tempo indeterminato e il proprietario è stato talmente contento di lui che gli ha regalato un viaggio premio all’acquario di Genova con la famiglia e Luca fuori da Roma non c’era mai stato e neanche sua moglie e neanche suo figlio di 7 anni.

​Quando sono uscite dal carcere di Rebibbia, Roberta e Barbara hanno avuto come un senso di straniamento e Goliarda, che era compagna di cella, ha scritto che «loro, anche quando sono fuori, è come se fossero dentro. Quando sono con loro, anch’io mi sento ancora dentro, cioè libera». E questa sorellanza, questo sentirsi parte di una comunità d’affetti, di un gruppo, pure richiusi dentro un’istituzione orrenda come il carcere, è paradossalmente quello che manca a molti reclusi quando escono, perché si ritrovano soli più di prima, non hanno nessuno che li aspetti, non hanno un lavoro, perché dentro non ne hanno imparato nessuno, e fuori chi lo prende uno appena uscito prigione, e per di più con gli occhi spiritati e i nervi a pezzi, frantumati da anni di cattività. E allora il fuori è spesso solo una finta liberazione, una gabbia più grande, senza nemmeno più l’aiuto e l’amore delle tue compagne e dei tuoi compagni. 

​Quando è uscito dal carcere, Mario non è davvero uscito, perché da recluso è diventato internato, che è difficile spiegarlo, ma il nostro codice Rocco, non a caso varato durante il fascismo, dice che esistono i «delinquenti professionali o per tendenza o abituali» e questi possono essere condannati a misure di sicurezza perché sono pericolosi e dunque anche quando hanno finito di scontare la loro pena, ne cominciano a scontare un’altra, nelle case di lavoro o nelle colonie agricole, che alla fine sono carceri e lì a volte ci rimangono fino alla morte, dimenticati tra i dimenticati. Mario - ci racconta Susanna Marietti di Antigone - era un ladruncolo compulsivo, aveva provato a rubare portafogli sull’autobus, spesso senza riuscirci, e siccome l’aveva fatto un po’ di volte, era stato dichiarato delinquente abituale e dunque era finito a Vasto, in una casa lavoro, dove la direttrice le aveva confidato, affettuosamente: «Questo è scemo». Gli internati come Mario sono quasi 300, alcuni incapaci di intendere e volere che sono dentro le Rems (le residenze per le misure di sicurezza), mentre altri - emarginati, poveri, spesso squinternati - stanno in queste fantomatiche case lavoro e colonie agricole e non si capisce perché debbano avere una pena doppia e perché debbano essere definiti pericolosi, quando in fondo sono soltanto soli, e non c’è nessuno che può prendersi cura di loro e aiutarli nella loro cleptomania o nella loro disperazione abituale. 

​Quando è uscito dal carcere per l’ultima volta, Emanuele De Maria, è andato all’hotel Berna dove lavorava in articolo 21 come receptionist, mentre la sera rientrava a Bollate, e quel giorno sembrava tutto normale, un lavoro noioso come sempre, e però speciale visto che gli consentiva di stare fuori. Ma a Emanuele quel giorno è scattato qualcosa dentro, che chissà da quanto si teneva, e così ha tagliato la gola e i polsi alla collega Chamila e ha accoltellato un altro collega, Hani Fouad, poi ha scritto alla madre - «Ho fatto una cazzata» - è salito sul Duomo di Milano, ha dato un’occhiata al panorama e si è lanciato nel vuoto.

La prima volta che è uscito dal carcere di Sollicciano, a Firenze, Raimondo Romano ha «pianto con il cuore»: «Mi sembrava tutto enorme, mi sono sentito piccolo come un uccellino, avevo paura delle strade». L’ultima volta è stata oggi, per andare dalla casa circondariale di Saluzzo fino al caseificio di Villafalletto, con la bici elettrica che gli ha regalato il campione Paolo De Chiesa e con la quale fa undici chilometri ogni giorno, aspettando il fine pena, dopo 33 anni di carcere, per reati commessi nel 1991, «quando ero quasi un bambino». ​

Né dentro né fuori: perché le misure alternative sono importanti (ma non bastano)

​Si parla molto del sovraffollamento e della cifra record di detenuti in cella, 62 mila. Ma nelle strutture per l’esecuzione penale esterna, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, ci sono 97 mila persone. Sono fuori, ma non sono del tutto fuori. Sono sottoposte a misure alternative alla detenzione, sanzioni sostitutive, libertà vigilata, lavori di pubblica utilità, messa alla prova. Un’area penale enorme, che può essere interpretata come il segnale di una delinquenza in aumento (ma dai dati non risulta affatto) o piuttosto può dare il senso di quanto siano diventate pervasive le politiche penali e di quanto il panpenalismo sia ormai lo strumento unico, o quasi, per affrontare il disagio sociale e la marginalità. 

Le misure alternative sono state introdotte nel 1975 dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario e poi migliorate dalla legge di Mario Gozzini del 1986 e da altre norme sostitutive del carcere, compresa la recente riforma Cartabia, nonostante le ricorrenti polemiche. Contribuiscono, in teoria, a sgravare il sistema penitenziario, che è al collasso, e soprattutto rappresentano un primo diaframma di libertà, l’avvio di un percorso che dovrebbe portare a vedere la luce e a rendere più sensata e plausibile la prospettiva costituzionale di un reinserimento sociale. Eppure l’aumento di messa in prova e misure alternative non ha davvero ridotto il numero dei reclusi, cresciuto di molto nel corso degli ultimi anni.

​Quello che ancora manca è un sistema di welfare, di indirizzo e di accoglienza per i detenuti che cominciano ad affacciarsi fuori dalle prigioni. Chi è in affidamento in prova viene seguito dal personale dell’Uepe, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna. Spiega Roberta Cossia, magistrato di sorveglianza di Milano: «Quello che vedo è l’assenza di punti di riferimento esterni. Ho visto il film di Martone ed è comprensibile la sensazione di sperdimento di quelle donne, quando si ritrovano fuori. Dentro vivono in una logica di caserma, magari malata e paternalistica, ma comunque inserite in una dinamica di gruppo che le aiuta a vivere, a sostenersi a vicenda. Quando escono sono sole, non c’è nessuno che dia una mano per trovare un lavoro, una casa, per pagare la bolletta».

L’Uepe è sovraccaricato, solo a Milano ha 9 mila persone da gestire. «Bisognerebbe che raddoppiasse l’organico - spiega Cossia - per consentire di svolgere davvero il loro compito. Ma il personale è demotivato e c’è molta mobilità: appena arrivano, spesso se ne vanno. L’ultimo concorso è andato deserto. Ma così finisce per mancare totalmente quel lavoro di approfondimento dei nuclei familiari e sociali nel quale tornano i reclusi, che talvolta non sono contesti idonei ad accoglierli».

​Se per chi è in affidamento in prova è previsto almeno un colloquio al mese con un assistente sociale del’Uepe (contatti formali, ma comunque qualcosa), per chi lavora all’esterno, in articolo 21 (lavoro) o semilibertà, non è previsto nulla. Il caso di Emanuele De Maria è significativo. Racconta Pino Cantatore, ex detenuto che ha creato l’importante cooperativa B4: «De Maria ha lavorato per un anno nel nostro call center a Bollate. Aveva un diploma della Cisco Academy. Professionalmente era una persona seria. Però forse che ci fosse qualcosa che non andava si poteva capire. Parlava poco, era introverso, aveva un passato turbolento, era stato nella legione straniera e poi latitante per anni. Insomma, una persona complessa. A un certo punto lo hanno fatto uscire per andare a fare il receptionist nell’hotel. Con il senno di poi, è stato meglio per noi. Però è vero che fuori non era seguito da nessuno. Noi, invece, abbiamo assunto un assistente sociale che parla con le persone che lavorano, le segue, prova a cogliere le situazioni di disagio. Ora Bollate, dopo quello che è successo, ha messo a disposizione un educatore e uno psicologo che, al rientro dall’articolo 21, fanno una sorta di accoglienza, come per i nuovi giunti».

​Se per gli italiani la difficoltà è capire come seguirli efficacemente, per gli stranieri la situazione è ancora più difficile. Molti avrebbero i requisiti per potere uscire dal carcere in qualche forma, ma spesso non hanno una casa o vivono insieme ad altre persone che hanno avuto problemi con la giustizia e il magistrato non concede la misura. «Servirebbero più progetti di social housing. Qualcuno c’è ma sono pochissimi», dice Cossia. E così il fuori per molti resta un miraggio. E quando viene raggiunto, quando finalmente si aprono le porte del carcere, c’è il deserto. Niente lavoro, niente casa, nessuna prospettiva di reinserimento. E non è un caso se le statistiche dicono che su dieci detenuti sette, appena liberi, sono già pronti per commettere un nuovo reato, per tornare dentro. In una spirale senza fine, fatale per loro e disastrosa per la società.

 

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